Pepo e la sua mamma

Funziona così. Funziona che devi aprire il cuore e sentire tutto il dolore dentro. Sembra strano ma se lo senti tutto e non ti difendi, se ti apri e basta, allora poi sorridi. Perché sotto c’è l’amore. E non solo sotto. Sopra, di lato, insomma ovunque.
Funziona che ci sono gli “infanti deceduti”, i “feticini”, i “bambini morti” e poi ci sono i “Pepi”.
Io ho sempre amato i bambini – dice L. – e quando aspettavo la mia piccola, non sapendo ancora se fosse maschio o femmina, l’ho chiamata “Pepo”, come quel CiccioBello con le fattezze di neonato che volevo tanto da piccola. Non l’ho mai avuto. E anche la mia bambina non è qui con me.
E quindi “Pepo” diventa un nome generico per indicare le piccole meteore che troppo veloci sono passate in questa dimensione terrena; “i pepi”.
È tutto qui il segreto per amare questa parte del mio lavoro. È che tu stai con i genitori, gli zii, i nonni dei Pepi. E ti rendi conto che se non capisci quante cure stanno in quel “nomino”, allora non hai capito niente, non sei nessuno.
Quell’amore deve poter uscire, essere urlato, visto, vissuto. Quell’amore è il fiocco che non si è potuto appendere, il vagito non udito, le braccia vuote.
Quell’amore si concentra in un tempo piccolo, non sprecabile. In un tempo intenso. In un tempo di ghiaccio e di paura, di smarrimento, di “e poi?”.
E quindi diciamolo a tutti che non si tratta che d’amore. Solo di questo.
Grazie.